Amicizia, affetto e sapere, un tributo a Gianni Liotti 

Il 9 aprile Gianni Liotti ci ha lasciato. Stava lavorando intensamente per uscire dalle difficoltà conseguenti all’emorragia cerebrale che lo aveva colpito nel giugno scorso. Ma purtroppo non ce l’ha fatta, la vita ancora una volta è stata cattiva con lui. Ha lasciato la moglie e due figlie, tanti amici che l’hanno amato, alcuni collaboratori con cui ha discusso per una vita il suo pensiero e le sue idee e una comunità di colleghi alla quale tanto si era dedicato e tanto ha dato nella sua vita. Lascia un profondo dolore in tanti, lascia anche un corpus importante di pubblicazioni che rappresenta un lascito prezioso e ancora molto fertile. Un corpus anche discusso in questi tempi, interpretato come poco cognitivista, anzi per nulla, un pò vago nelle implicazioni e ricadute terapeutiche. Eppure fu lui insieme a Vittorio Guidano a fondare la SITC prima e la SITCC poi. Eppure si è sempre detto un cognitivista e la sua opera si declina tutta nei termini di un cognitivismo inteso come approccio alla comprensione dei fenomeni psicopatologici e degli interventi psicoterapeutici declinati da metodologia scientifica e dell’empirismo e con la convinzione che non ci sia bisogno di una meta psicologia esplicativa del funzionamento mentale che faccia riferimento all’inconscio e a forze istintuale profonde e non conoscibile che giustificano i comportamenti fisiologici e psicopatologici dell’individuo.


Questo è il primo assunto su cui si fonda tutto il percorso intellettuale di Liotti: la psicoterapia si deve occupare dell’esperienza psicopatologica soggettiva accettando il metodo scientifico della falsificabilità della teoria e della verifica empirica dei risultati.


Liotti nato nel 1943, negli anni 70 è psichiatra alla clinica universitaria della Sapienza, si dedica ad una attività clinica coi pazienti volta a comprendere il funzionamento mentale dei pazienti che ha in cura, e a cercare insieme con Guidano interventi terapeutici che abbiano un fondamento scientifico e di verifica empica. in quegli anni dominati in Italia dal paradigma psicoanalitico, si interessa di comportamentismo (ancora il cognitivismo è nella fase pre big bang) scrive Elementi di:::::::::.

Sono curiosi i due, e rapidi di cervello, colti e un po’ geniali; leggono, studiano, partecipano ai primi congressi europei di comportamentismo, dove incontrano Beck e il suo metodo terapeutico. Lo studiano, e lo avvertono come compatibile con quello che hanno in mente, con quello che stanno cercando. Sono i formidabili e rutilanti anni 70, conoscono anche John Bowlby, l’eretico psicoanalista dedito allo studio della relazione madre-bambino secondo la modalità derivata dall'osservazione etologica di Lorenz, mettendo a punto un metodo di studio “Strange Situation” che permettesse la valutazione empirica, necessaria alla definizione di una relazione chiamata di “attaccamento” come pattern comportamentale mirata ad uno scopo biologicamente innata e modulata dall’adattamento all’ambiente sociale. Eureka! A questo punto gli ingredienti c’erano tutti si trattava di integrarli in un modello teorico organico, coerente, compatibile con i riferimenti di base.

I due scrivono nel 1983 Cognitive Process and Emotional Disorders per i tipi della Guilford Press (perché una casa editrice americana?). E’ un libro che ha un impatto potente nel mondo della psicoterapia cognitiva e non. Si introduce un concetto quello di organizzazione cognitiva, intesa come organizzazione di schemi mentali, rappresentazioni mentali di sé e dell’altro, che rappresenta la conoscenza che ciascuno a di sé degli altri e del mondo e la propria modalità di adattarsi al mondo ambientale e sociale.

Questo libro non è mai stato tradotto in italiano, apparirà tra breve per la prima volta edito da apertamente.web col titolo “Processi cognitivi e Regolazione emotiva”, è amaro pensare che Liotti non ci sarà quel giorno.

Ne parleremo, ne dovremo parlare perché è un libro che segna uno spartiacque per quello che sarà anche il cognitivismo in Italia, vista l’influenza che ha avuto in tutti coloro che sono cresciuti culturalmente formandosi con questi concetti.

Seguirà un lungo periodo di silenzio dal punto di vista della pubblicazione di libri, si interrompe il sodalizio con Guidano, non si interrompe lo studio e la riflessione teorica a partire dall’osservazione clinica dei pazienti che ha in cura. La difficoltà di trattare certi pazienti, la mancata risposta ad interventi terapeutici di solito efficaci, l’attenzione all’ascolto delle esperienze significative avvenute nella vita dei pazienti associate ai primi risultati empirici sul peso che potevano avere eventi e relazioni traumatiche sul pattern di attaccamento, lo portano ad occuparsi di un’area della psicopatologia quella caratterizzata dalle esperienze dissociative che lo impegnerà per tutta la sua vita.


E’ come se lo studio, per lui, richiedesse continui rimandi e approfondimenti da una disciplina ad un’altra dalla neurobiologia alla neuropsicologia, studiare la dissociazione significa studiare la coscienza, da Dennett ad Edelmann, da Jackson a Janet, da LeDoux a Panksepp. Dal 1991 al 2001 si dedica a quella che possiamo chiamare la trilogia della coscienza.


Nel 1991 scrive “La discontinuità della coscienza” sui sintomi dissociativi, le sindromi dissociative, la loro origine psicologica e le ipotesi sui rapporti con le esperienze traumatiche. Si comincia a capire cosa ha in mente. Di lì a poco esce “La dimensione interpersonale della coscienza”, 1995, sarà il suo masterpiece, lo scriverà e riscriverà per più di 10 anni, ogni nuova edizione, e ne sono uscite più di 10, è ampliata, rivista, integrata.


Non scrive facile Liotti, la sua è una scrittura ostica, il suo pensiero mira all’esaustività delle spiegazioni e alla integrazione con dati provenienti da altri campi della ricerca. Non vuole affascinare il lettore, vuole condividere con lui ciò che sa. Non usa le vie brevi, lo strumento della narrazione enfatica, della affermazione eclatante, chiede e richiede la pazienza, la caparbietà di arrivare in fondo a letture che impongono attenzione, concentrazione, memoria.


Comprendere e spiegare sembrano essere gli imperativi categorici della sua vita intellettuale. Niente di ciò che non sia stato ben compreso, attraverso uno studio minuzioso può essere scritto e merita di essere spiegato. In questo dittongo che forse si può intravedere la fatica del suo lavoro e la generosità nei nostri confronti.


Nel 2001 pubblica “le opere della coscienza”, in cui non tratta un singolo aspetto della psicopatologia o della psicoterapia ma presenta l’impianto teorico del suo pensiero nella sua interezza, e consapevole della distanza dall’originario modello beckiano la definisce nel sottotitolo “ una prospettiva cognitivo-evoluzionista”. Ma per la sua necessità di precisione e rispetto del lettore. Non credo che in lui ci sia mai stata l’ambizione di costruire la “sua” scuola o il “suo” modello di psicoterapia da sfruttare poi a fini commerciali. E’ stato un romantico, a modo suo. O ingenuo nella cinica luce dell’oggi.


I suoi lavori successivamente lo continuano a vedere coerentemente impegnato ai temi scientifici della sua vita nelle sue 2 sfaccettature: riflessione teorica e verifica empirica. Con benedetto Farina scrive “Sviluppi traumatici” (2011) riprendendo il discorso iniziato con “la discontinuità della coscienza” sulla relazione tra traumi relazionali, dissociazione e psicopatologia potendo usare a supporto delle sue tesi la magnitudo di dati che la rivoluzione delle neuroscienze ha fornito nei 20 anni trascorsi dalla pubblicazione di quello.

Che goduria deve essere stato per lui vedere che c’aveva visto giusto. Un’area psicopatologica apparentemente così esigua nella sua prevalenza da essere rimasta misconosciuta per più di 50 anni tanto agli psichiatri quanto agli psicoterapeuti di tutti gli approcci e frequentata solo da pochi aficionados, è diventata negli ultimi anni uno dei principali crocevia dove si incrociano e si incontrano tutte le aree della ricerca neuroscientifica. E lui partecipa al dibattito con il contributo di un’impalcatura teorica che permette di dare senso ai tanti risultati provenienti dalle ricerche in discipline diverse.



Il secondo filone, quello della verifica empirica legato alla necessità di appoggiare i suoi studi sui rapporti tra sistemi motivazionali interpersonali e relazione terapeutica su prove empiriche, lo porterà prima con alcuni collaboratori, Fabio Monticelli e Giovanni Fassone tra i primi, a scrivere prima 2 libri su un raffinato metodo, definito AIMIT, per verificare questi rapporti (“I sistemi motivazionali nel dialogo clinico” Liotti e Monticelli 2008, “Le evoluzioni delle emozioni e dei sistemi motivazionali” Liotti, Fassone, Monticelli, 2017). Poi alla pubblicazione di un volume tutto dedicato all’alleanza terapeutica “Teoria e clinica dell’alleanza terapeutica” (Liotti, Monticelli, 2014), che aiuti gli psicoterapeuti ad affrontare, nella cura di questi pazienti difficili, le particolari difficoltà poste dalle crisi, gli stalli e le rotture della relazione tra terapeuta e paziente.


Siamo arrivati in fondo e come anticipato, in una specie di amaro contrappasso del tempo e della vita, la sua vita intellettuale si chiude con l’inizio. La pubblicazione purtroppo postuma della traduzione italiana del libro del 1983 “Cognitive Process and Emotional Disorder”. E’ arrivato il 12 aprile nelle librerie, 3 giorni dopo la sua scomparsa.


La scomparsa di Gianni Liotti ha lasciato in quanti lo hanno conosciuto un dolore profondo, ma i suoi libri e i suoi scritti sono e rimarranno una eredità preziosa. E un po’ dolce.

(di Carmelo Giovanni La Mela)